BURNOUT E DIPENDENZE

Lo stress da lavoro sembra essere ormai una condizione normale nella vita moderna. Si è incitati alla produttività, ma spesso sono proprio le persone ad alto rendimento e capaci, coloro che hanno vite particolarmente piene, a cadere vittime del burnout.

La persona in burnout è sopraffatta da uno stato di stress cronico che rende emotivamente, fisicamente e mentalmente esausti. Infatti il burnout spesso deriva da pressioni croniche, scadenze irrealistiche o mancanza di controllo sulle proprie attività. Si crea un circolo vizioso: lo stress provoca la sindrome da burnout, il quale rende difficile affrontare lo stress.

L’organismo per resistere allo stress e proteggersi dall’attività a cui viene sottoposto produce sostanze neurochimiche come endorfine e cortisolo, che finiscono per “bruciare” se rilasciate per lunghi periodi. Come sosteneva Paracelso: il dosaggio fa il veleno!

Capita che la persona in burnout si trascini per anni senza dare ascolto agli indicatori del suo esaurimento (cinismo, apatia, irritabilità, trascuratezza, sensazione di inutilità, ecc.); anzi, ingenuamente, alcuni addirittura ricorrono a sostanze per “autocurarsi” e/o cercano sollievo nella rete. Per fronteggiare lo stress lavorativo e i sintomi del burnout, molti sono coloro che si complicano l’esistenza rischiando o divenendo dipendenti da sostanze o dalle nuove tecnologie.

fotografia di ritratto dell'uomo

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Il Burnout dal punto di vista clinico

Dai colloqui clinici con lavoratori che si rivolgono a noi per i problemi più disparati, spesso emerge che alcuni di essi per far fronte alla demotivazione, al senso di depressione, allo stress e all’ansia assumano farmaci come benzodiazepine, ansiolitici, eccessivi quantitativi di cibo, ecc.; altri, per una maggiore produttività, combattono sonno e stanchezza usando eccessive dosi di caffeina, o anche eccitanti come cocaina o anfetamine; altri ancora ricercano sollevatori temporanei dell’umore per obnubilare la mente e/o per distrarsi dal pensiero ossessivo legato al lavoro. Per questo, di solito, dopo qualche seduta, confessano di usare: Sostanze (alcol, marijuana, oppiacei, cibo), oppure ricorrono alla rete col gioco d’azzardo, pornografia, social media, ecc.

In queste circostanze, per restare in salute, sarebbe sufficiente cambiare abitudini e il proprio modo di approcciarsi al lavoro. Sempre più di frequente, però, si osserva il contrario. Il buon senso perde!

Chi vive il burnout agisce in maniera irrazionale: combatte perché non accetta la situazione, pretende da sé, cerca di più e/o “altro” per andare oltre. La conseguenza? Aumenta il prezzo da pagare, poiché ciò che non funziona, complica.

Disturbi e problemi correlati al burnout

La sindrome da burnout presenta sintomi che caratterizzano vari disturbi. Chi soffre di burnout, difatti, presenta sintomi a livello fisico, psico-emotivo, comportamentale e relazionale.

Il burnout si sviluppa in modo subdolo, pur non essendo immediatamente evidente vi sono alcuni campanelli d’allarme che lo segnalano. Uno dei più eclatanti è l’assenza di benefici nonostante il riposo. Tra i sintomi più frequenti, invece, vi sono: insonnia, cefalea, mal di stomaco, insofferenza per i turni, demotivazione al lavoro.

In generale, quando si soffre e quello che si fa non aiuta, sarebbe meglio rivolgersi ad esperti. Chi soffre di burnout, invece, non riconoscendo immediatamente il problema di cui soffre, capita che persista anche in assenza di risultati. Sempre di più, infatti, sono quelli che cercano di “autocurarsi” usando sostanze (alcol, cibo, farmaci o sostanze psicoattive); oppure, quelli che cercano di arrotondare col gambling online, di crearsi un lavoro facendo trading online, di avvantaggiarsi abusando di smartphone per lavorare fuori dall’orario, di svagare abusando delle nuove tecnologie che facilitano l’accesso alla pornografia, allo shopping, a forme di autolesionismo. Oltre a questi vi sono anche quelli che per trovare pace si isolano emotivamente allontanandosi da amici, colleghi e talvolta persino dalla famiglia.

un bicchiere d'acqua

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Burnout e dipendenza da lavoro

Sembra che Winston Churchill trascorresse più di 18 ore al giorno a lavorare e che in un’occasione rivolgendosi al suo medico, dichiarò: “Non mi piace stare sulla fiancata di una nave e guardare in basso verso nell’acqua. Un gesto di un secondo metterebbe fine a tutto” (Yee, 2024). Le ipotesi circa le ragioni per cui lavorasse così tanto vanno in due direzioni opposte: c’è chi sostiene che col lavoro combattesse la sua depressione (da lui definita “cane nero”), agli antipodi c’è chi sostiene che era l’eccessivo lavoro a renderlo depresso.

È inconfutabile la relazione esistente tra lavoro compulsivo e disturbi psichiatrici come ansia (Clark, Michel, Zhdanova, Pui, Baltes, 2014) e depressione (Akutsu, Katsumura, Yamamoto, 2022,). Gli studi dimostrano che vi sono persone che “curano” i loro problemi emotivi anche con il lavoro, finendo così per cadere in una sorta di dipendenza. Uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista scientifica Plos One riporta che “lo stacanovismo (in alcuni casi) si sviluppa come tentativo di ridurre i sentimenti di ansia e depressione” (Andreassen, Griffiths, Sinha, Hetland, Pallesen, 2016). Secondo questa tesi, detta della “causalità inversa” alcuni, per “curare” depressione e ansia aumentano la loro mole di lavoro. Infatti si ipotizza che durante la pandemia parte dei lavoratori si sia “automedicata” aumentandosi l’orario di lavoro (Pennock, 2021). Alcuni studiosi ritengono che molte persone abbiano aumentato il loro orario di lavoro durante la pandemia per affrontare noia, solitudine e ansia (Yang, Holtz, Jaffe, Suri, Sinha, Weston, Joyce, Shah, Sherman, Hecht, Teevan, 2021). Dai dati dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie degli USA, alla fine del maggio 2020, quasi un quarto degli adulti americani aveva riferito sintomi di depressione, rispetto al 6,5% del 2019 (NCHS, 2024).

Lavorare in maniera eccessiva crea stress, invece, lavorare per far fronte ad un disagio rischia di rendere dipendenti a prescindere dall’entusiasmo con cui si svolge il proprio lavoro (Portelli, Papantuono, 2017). Nei nostri studi clinici osserviamo che le persone ossessionate dal lavoro e dipendenti da esso, tendono a non attribuire i loro disturbi all’eccessivo lavoro. Sembra che non lo percepiscano come problema, non lo associno ai problemi per cui chiedono aiuto.

Nonostante le numerose ricerche, il senso comune fa ancora fatica a percepire il lavoro come fonte di problemi, o credere che possa creare dipendenza. In molti, però, abusando dei moderni mezzi tecnologici non riescono a staccarsi dal loro lavoro, evidenziano una vera e propria dipendenza dalle loro attività lavorative (Portelli, Papantuono, 2017; Lembke, 2021).

Nella nostra cultura la dipendenza intesa in senso negativo è associata solo all’abuso di alcune sostanze, mentre si premiano i comportamenti legati all’uso delle tecnologie, soprattutto se usate ai fini lavorativi, anche quando se ne abusa fino al punto da rendere dipendenti.

“Auto-cura” dal burnout: un tentativo di soluzione fallimentare

Publilio Siro, il drammaturgo romano vissuto nel I secolo a.C., diceva “Ci sono rimedi peggiori della malattia, ma anche Molière faceva notare che: “Quasi tutti gli uomini muoiono dei loro rimedi, non delle loro malattie”. In molti casi il rimedio complica e diventa un ulteriore problema. Molti lavoratori in burnout cercano di “curare” i sintomi dello stress da lavoro assumendo sostanze che procurano uno stato di dipendenza. Infatti, sembra che circa il 10% degli statunitensi ad un certo punto della propria vita abbia avuto una dipendenza da sostanze (NIH, 2015).

Possono creare dipendenza anche i farmaci assunti inizialmente ai fini terapeutici, quando se ne abusa proseguendone il consumo. Eccitanti, sedativi, analgesici a base di oppiacei è facile che creino uno stato di dipendenza. Assumere farmaci senza consultare un esperto, è una pratica parecchio diffusa. Dalla letteratura scientifica (Turner et al. 2018) esistente risulta che il 24% di chi soffre di ansia e circa il 22% di chi ha un disturbo dell’umore usi alcol e/o droghe per “curarsi”. I dati dimostrano che “autocurarsi” aumenti di sei volte la possibilità di sviluppare una dipendenza persistente, (TurnerMotaBoltonSareen, 2018), pertanto chi ricorre all’autocura più facilmente può sviluppare una dipendenza da sostanze. I benefici dell’“automedicazione” però sono ingannevoli ed effimeri, poiché il costante aumento della soglia di tolleranza (uno dei principali sintomi dello stato di dipendenza) intensifica il burnout (senso di esaurimento, depressione, stress, conflitti [Clark, 2014]), oltre a rendere anche più dipendenti da quello che si usa e/o da quello che si fa per “automedicarsi” (droghe, alcol, pornografia, gioco d’azzardo, ecc), da Lembke (2021) definite dipendenze secondarie. Dunque, per far meglio si fa peggio.

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Linee guida per la cura del burnout

Quando si presenta un lavoratore che lamenta qualche problema tra quelli sopracitati è necessario considerare: a) difficilmente chi soffre di burnout riconosce immediatamente il problema; b) solitamente la persona in burnout chiede aiuto per gestire sintomi che associa alle psicopatologie più disparate. Date queste premesse, l’esperto prenderà in considerazione l’ipotesi di burnout quando il paziente/lavoratore riferisce assenza di benefici psicofisici nonostante il riposo.

Definire i passi di un percorso terapeutico per i casi di burnout che complicano la loro condizione con una dipendenza è un lavoro possibile, ma troppo articolato per essere affrontato nella sua interezza e in maniera dettagliata in un articolo. Come già sopra descritto, molteplici possono essere le problematiche da cui emerge il burnout, così come diverse possono essere le forme di “autocura” che poi finiscono per intrappolare nella dipendenza l’ingenuo già vittima del suo lavoro. Perciò, eviteremo di esaminare tutte le possibili combinazioni e ci limiteremo a delineare delle linee guida. Prima di illustrarle bisogna premettere che i soggetti che vessano in una condizione di dipendenza, anche quando sprofondano nella dipendenza per “autocurarsi”, tendono a boicottare e/o ad opporsi alla terapia. Spesso dalla loro situazione, per quando complicata, sembra che riescano comunque ad ottenere vantaggi (Papantuono, 2007). Infatti, difficilmente richiedono volontariamente l’intervento, spesso sono altri a volere che la persona chieda aiuto. Per questa ragione è preferibile intraprendere un percorso di terapia indiretta con chi avverte il problema, poiché questo è motivato ed è in grado di collaborare per cambiare la situazione. La persona che ha una dipendenza arriva quando perde i vantaggi secondari o quando rischia di perdere ciò che gli dà veramente piacere, è da quel momento in poi che la persona dipendente è motivata ed è effettivamente disposta a collaborare (Papantuono, 2007; Papantuono, Portelli, Gibson, 2014; Portelli, Papantuono, 2017). Fatta questa ulteriore premessa, in ogni caso, bisogna:

  • Valutare risorse e limiti di chi cerca l’aiuto. Solo in rari casi il lavoratore in burnout divenuto dipendente chiederà aiuto.
  • Intervenire sul problema lamentato. Ciò è necessario per sbloccare la situazione ed infondere fiducia. La persona che sperimenta un primo piccolo passo concreto nella direzione desiderata, che riprende un po’ più il controllo di sé e delle sue abitudini, avvertendo di poter far qualcosa sulla sua dipendenza, verrà incoraggiata a continuare il percorso. Quindi, un primo intervento che toglie forza al problema dona forza alla persona che lamenta il problema, innesca un cambiamento di prim’ordine. Orazio (Epist., I, 2, 40) diceva: “Chi ben comincia è a metà del lavoro”.
  • Quando si osserva che nonostante lo sblocco continuano ad esserci altri problemi o regolari ricadute e per questo il paziente continua a richiedere aiuto, allora è necessario ristrutturare. Il terapeuta avanzerà ipotesi circa gli ostacoli che stanno impedendo il salto di qualità. Il problema portato può essere paragonato al gioco delle matriosche contenute l’una nell’altra. Si può dichiarare che solitamente il piacere di ciò che crea dipendenza svolge la funzione di curare quello che si vive a lavoro; poiché, sempre più numerosi sono i lavoratori che strutturano una dipendenza per il male che crea loro il lavoro, quindi vittime di burnout. Inoltre, in questi casi, se il paziente tendesse ad accomodarsi ad una situazione irrisolta, il terapeuta dovrà considerare il rischio di un rapporto di dipendenza dalla sua figura. Al fine di evitare di diventare complici o oggetti fonte di una nuova dipendenza, gradualmente si dovrà accompagnare il paziente al distacco, riattivandogli il desiderio della sfida e di continuare a cambiare. S’indurrà il paziente a percepire il bisogno di passare ad un ordine di cambiamento superiore, quello che Watzlawick (2013) definì cambiamento di second’ordine, ossia il cambiamento radicale, definitivo e qualitativamente diverso dal precedente: il cambiamento desiderato.
  • Il dominio su ciò che dà dipendenza, con la rinuncia e la ricerca di piaceri effettivi, crescerà riducendo il bisogno dallo pseudo-piacere surrogato.
  • A questo punto l’intervento potrà essere orientato e diretto sempre più al burnout. Se ancora risultassero poco chiare si indagherà sulle difficoltà (emotive, relazionali, comunicative, tecniche) che si incontrano a lavoro e si procederà fornendo strumenti per gestirle.

In altre parole, il terapeuta indagherà per scoprire il pattern che ha “bruciato” il paziente che ha fatto ricorso al “rimedio” (sostanza o comportamento) che ha complicato il problema rendendolo dipendente. Sarà allora che si metterà in atto il protocollo per la specifica tipologia di burnout di cui parliamo nel lavoro intitolato “Burnout. Allenarci per uscire dai nostri circoli viziosi” che a breve sarà pubblicato (Portelli, Gibson, Papantuono, in press).

 

Bibliografia/ sitografia

  • AkutsuKatsumura F., Yamamoto S., 2022, The Antecedents and Consequences of Workaholism: Findings From the Modern Japanese Labor Market, 15, Front Psychol. doi: 10.3389/fpsyg.2022.812821
  • Andreassen C.S., Griffiths M.D., Sinha R., Hetland J., Pallesen S., 2016, The Relationships between Workaholism and Symptoms of Psychiatric Disorders: A Large-Scale Cross-Sectional Study. PLoS ONE 11(5): e0152978. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0152978
  • Clark M.A., MichelJ., Zhdanova L. Pui S.Y., Baltes B.B., February 2014, All Work and No Play? A Meta-Analytic Examination of the Correlates and Outcomes of Workaholism, Journal of Management. DOI:10.1177/0149206314522301
  • Lembke A., 2021, Dopamine Nation: Finding Balance in the Age of Indulgence, Hardcover
  • Mayo Clinic Staff, How opioid use disorder occurs. Opioid use — even short term — can lead to addiction and, too often, overdose. Find out how short-term pain relief leads to life-threatening problems. https://www.mayoclinic.org/diseases-conditions/prescription-drug-abuse/in-depth/how-opioid-addiction-occurs/art-20360372
  • National Center for Health Statistics (NCHS), 2024, U.S. Census Bureau, Household Pulse Survey, 2020–2024. Anxiety and Depression. Generated interactively: November 10, 2024 from https://www.cdc.gov/nchs/covid19/pulse/mental-health.htm
  • National Institut of Health (NIH), 2015, 10% of US adults have drug use disorder at some point in their lives, Wednesday, November 18, 2015. https://www.nih.gov/news-events/news-releases/10-percent-us-adults-have-drug-use-disorder-some-point-their-lives
  • Papantuono M., 2007, April 2007, “Identifying & Exploiting Patients’ Resistance” Journal of Brief Strategic & systemic Therapies vol.1. Ed. C. Hybarger & Dr E.C. Frank. pp 17-26. ISSN 1935-1577.
  • Papantuono M., Portelli C., Gibson P., 2014, Winning without Fighting: A Handbook for Effective Solutions for Social Emotional and Behavioural Problems in Students, Malta: Malta University Press. Translated and published in French, Italian, Spanish (in press) and Russian (in press).
  • Pennock F., 2021,  Helping a Workaholic in Therapy: 18 Symptoms & Interventions, PositivePsychology. https://positivepsychology.com/workaholic/
  • Portelli C., Gibson P., Papantuono M., Burnout. Coaching ourselves out of our vicious circle, In Press
  • Portelli C., Papantuono M., 2017, Le nuove dipendenze, SanPaolo, Milano
  • TurnerMotaN., Bolton J., Sareen J., 2018, Self‐medication with alcohol or drugs for mood and anxiety disorders: A narrative review of the epidemiological literature. Depression and Anxiety, Depress Anxiety. Jul 12; 35(9):851–860. doi: 10.1002/da.22771.
  • Watzlawick P., 2013, Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, Milano
  • Yang L., Holtz D., Jaffe S., Suri S., Sinha S., Weston J., Joyce C., Shah N., Sherman K., Hecht B., Teevan J., 2021, The effects of remote work on collaboration among information workers, Nature Human,6, pages43–54 (2022)

Yee R., 2024, Chancellor Churchill: the Treasury, party politics and the reinvention of Budget Day, 1924–1929, Contemporary British. History, 10.1080/13619462.2024.2391368

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