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Terapia Familiare o Indiretta
Aiutare chi rifiuta l’aiuto
Ci capita di ricevere richieste di aiuto da parte di terzi, come genitori, parenti o partner di persone che mostrano sintomi e che avrebbero bisogno di una psicoterapia. Queste richieste possono derivare da diverse situazioni: genitori che richiedono l’intervento per un bambino o un adolescente che mostrano disagi; la richiesta di aiuto di un partner che per gestire l’altro manifesta comportamenti problematici; un familiare che si preoccupa per un proprio caro.
Quando si ricevono richieste di questo tipo, è importante affrontare la situazione con sensibilità e professionalità. Gli psicologi devono valutare attentamente la situazione, prendendo in considerazione sia le esigenze della persona che riceve il supporto che quelle del terzo che lo richiede. È importante mantenere la confidenzialità e rispettare i diritti e la privacy della persona in questione, assicurandosi che ogni intervento venga svolto nel rispetto del suo benessere e della sua autonomia.
In alcuni casi, potrebbe essere necessario coinvolgere la persona diretta nella situazione, incoraggiandola a cercare aiuto e supporto psicologico autonomamente. In altri casi, potrebbe essere appropriato fornire consulenza o sostegno al terzo che ha richiesto aiuto, aiutandolo a comprendere meglio la situazione e fornendo suggerimenti su come affrontare al meglio le difficoltà. Altre volte, quando la persona che manifesta la situazione sintomatica si rifiuta di seguire un percorso di cura, allora è legittimo ipotizzare che vi siano vantaggi che si vogliono mantenere. In questi casi, gli strumenti per gestire la situazione vanno dati a chi subisce il problema indirettamente.
Indipendentemente dalla situazione specifica, è fondamentale che gli psicologi agiscano mantenendo sempre un approccio etico e professionale, verso ogni membro e per il benessere del sistema.
In queste situazioni la persona interessata raramente avverte l’esigenza di ricevere aiuto, o meglio, la sente, ma non per sé. Infatti, di solito esclama: “Sei tu che stai male, non io. Tu devi curarti!”.
Inoltre possono esservi situazioni dove qualcun altro, come ad esempio un tribunale, decida che una persona debba seguire un percorso psicologico anche se non è direttamente essa stessa a riconoscerne la necessità. Questa situazione può presentare delle sfide sia per lo psicologo che per la persona coinvolta.
Per lo psicologo, il dialogo con una persona che non ha riconosciuto autonomamente il bisogno di aiuto può essere particolarmente delicato. È importante stabilire un rapporto di fiducia e rispetto con il paziente, rispettando la sua dignità e autonomia. Il professionista dovrà tener conto delle resistenze e della mancanza di motivazione del paziente, per questo ricorrerà a strategie ad hoc per facilitare il processo terapeutico e lavorare insieme al paziente per affrontare le difficoltà.
Come aiutare chi rifiuta l’aiuto?
Chi rifiuta l’aiuto di solito è, o un oppositivo, ossia uno che non intende collaborare pur avendo le risorse per farlo; oppure è una persona né in grado di collaborare, né in grado di opporsi, ossia una persona incapace di avvertire l’esigenza di essere aiutata.
Fare queste distinzioni può aiutare i familiari di questi pazienti “sofferenti ma non collaboranti”, che vivono indirettamente il problema. Alla stregua di “coterapeuti”, forniamo loro degli strumenti per intervenire indirettamente.
Quand’è un adulto a rifiutare l’aiuto?
È indubbiamente difficile affrontare situazioni in cui un adulto rifiuta cure o supporto psicologico, specialmente quando il comportamento autodistruttivo o poco salutare sta causando preoccupazione ai familiari. Senza una prescrizione giudiziaria o una chiara urgenza sanitaria, non è possibile costringere un individuo maggiorenne a cercare aiuto. Un adulto, non inequivocabilmente pericoloso per sé o per gli altri, non può essere (salvo in rarissime condizioni) costretto a curarsi.
Tra costoro, frequentemente, vi sono i dipendenti da gioco d’azzardo scommesse, i dipendenti da sostanze (alcool, droghe non violenti), chi trascura moglie e figli per il lavoro, o al contrario chi non intende affatto impegnarsi in un lavoro. In questi casi i familiari, solitamente, chiedono aiuto per il loro caro quando arrivano al limite e dopo aver provato di tutto per cambiare le cose.
Come può peggiorare la situazione in questi casi?
L’esperienza clinica indica che, in questi casi, quanto più si cerca di spingere in una direzione tanto più si va nell’altra e le cose peggiorano. L’insistenza dei familiari affinché la persona che avrebbe bisogno di curi abbandoni i comportamenti negativi, se è eccessiva e persistente, paradossalmente fa aumentare le resistenze del paziente, anziché farle diminuire.
Solitamente la pressione psicologica dei familiari che spingono il paziente a “farsi curare”, determina l’opposto: accentua i comportamenti sintomatici, anziché diminuirli, riduce le possibilità che il paziente richieda una terapia.
Allora, in questi casi si resta con le mani in mano?
Iniziamo con il negare categoricamente questa possibilità, anzi.
Se oltre al problema esposto dalla persona, sussiste anche un conflitto familiare associato al rifiuto del soggetto di accettare cure, la famiglia si trova di fronte non a un solo ostacolo, ma addirittura a due: il problema manifestato dal proprio caro e il conflitto che si crea con lui. Questo inevitabilmente comporta un aumento considerevole della sofferenza per tutti i membri coinvolti.
La soluzione più efficace per affrontare queste situazioni passa attraverso un passaggio cruciale: coinvolgere nella terapia, soprattutto nella fase iniziale, anche coloro che hanno contattato lo psicologo. Si tratta di lavorare con loro in incontri mirati sulle motivazioni alla base del rifiuto del proprio caro di sottoporsi a cure. Talvolta, i “pazienti”, osservando che i loro familiari si impegnano con lo psicologo in prima persona, mettendosi così direttamente “sul campo”, sono incoraggiati a abbassare le proprie difese e a concedersi a colloqui familiari e, successivamente, anche individuali.
Tuttavia, va considerato un aspetto cruciale: attribuire il conflitto familiare unicamente al rifiuto di una persona di accettare cure è un altro modo per peggiorare. Le dinamiche coinvolte sono spesso intricate e riguardano più ampiamente la struttura delle relazioni familiari, la comunicazione e la percezione reciproca.
Ciò che diventa evidente è che intervenire sul conflitto familiare non solo affronta questo problema specifico, ma spesso porta a un significativo miglioramento della condizione del paziente stesso. Questo suggerisce implicitamente che molte forme di disagio sono fortemente influenzate da variabili relazionali e che la qualità delle relazioni, degli affetti e della comunicazione familiare ha un impatto significativo su di esse, anche se non è necessariamente la causa principale.
Dall’osservazione clinica, risultano evidenti due punti:
- le sessioni svolte con i pazienti refrattari alle cure, da questi ultimi sono richieste quando si riducono o con l’eliminazione dei vantaggi dati dalla situazione oggettivamente problematica, ossia solo in seguito al percorso svolto dai loro familiari;
- intervenire in maniera sistemica, con i familiari e il paziente, per estinguere definitivamente il sintomo, inevitabilmente è necessario lavorare anche su ciò che lo ha creato e lo mantiene: la comunicazione/relazione paziente e familiari.
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